Dalle stalle alle riviste, i “testimonial” del progresso zootecnico tra Otto e Novecento
Contributi scientifici e splendide tavole corredano gli articoli del “Giornale di agricoltura della domenica”
Nullo Bendandi è un giovane agronomo di 23 anni. Dopo un periodo di apprendistato presso la Cattedra ambulante di Parma, ha da poco ottenuto l’incarico di direttore della Cattedra ambulante di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza. Preparato ed attento, conosce bene il settore zootecnico. Antonio Bizzozero, che è stato suo direttore a Parma, ha ben presto capito che il giovane, proveniente da Cesena, è anche un buon pubblicista. Così, nel settembre del 1912, al Bendandi è dato l’incarico di seguire l’esposizione circondariale bovina che si svolge proprio a Borgo San Donnino. Il suo compito è quello di redarre, per l’edizione del 15 settembre del “Giornale di agricoltura della domenica”, un articolo di presentazione dell’esposizione. Gli argomenti da trattare sono tanti, a partire dalla grande querelle, sempre accesa, tra i “selezionisti” e i “partigiani dell’incrocio”: incrocio o selezione? Quale razza più adatta come incrociante? Come evitare la scomparsa dell’antica razza locale?
E non può mancare un omaggio all’attività del direttore della Cattedra ambulante di Parma, Antonio Bizzozero, suo maestro e grande promotore del miglioramento zootecnico nella provincia parmense. È fatto risaputo. Appena arrivato, nel 1892, nella città emiliana, Bizzozero si dà infatti un gran daffare, soprattutto per promuovere l’incrocio del bestiame locale con quello bruno di Schwytz, tramite l’importazione di torelli miglioratori. E i suoi insegnamenti, assicura il Bendandi, sono presto seguiti in terra parmense: “I pionieri sono stati i grandi allevatori dei poderi irrigui fertilissimi; sono poi venuti i medi allevatori a sospingere sempre più in alto l’importanza del bestiame e l’accreditamento della razza; così che oggi anche nei piccoli poderi a mezzadria si comincia a trovare qualcuno che sacrifica volentieri qualche marengo per l’acquisto di una giovenca che abbia spiccati i caratteri della razza bruna”.
A corredo dell’articolo, Bendandi inserisce altre due foto: una, piuttosto inusuale, ritrae l’area esterna di un podere utilizzata per dare “aria e moto” al giovane bestiame; l’altra raffigura un gruppo di manzette di produzione locale. Riguardo a questa, si parla di una “brutta fotografia” che – quasi a volersi scusare – non rende giustizia alle magnificenza delle manzette.
Le riviste della Federconsorzi, in particolare “L’Italia Agricola”, danno conto del grande progresso zootecnico che segna l’agricoltura emiliana nel periodo compreso tra fine Ottocento e primo Novecento. I contributi scientifici, che portano la firma dei massimi esperti dell’epoca, sono accompagnati da splendide tavole, davvero numerose nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Tori e vacche escono dalle stalle e dagli allevamenti dei grandi poderi emiliani per diventare protagonisti assoluti delle litografie prodotte dallo stabilimento bolognese Francesco Casanova e figlio (i disegni sono firmati da S. Casanova). Da Stellio a Mauro, da Rosa a Fritz: si tratta di esemplari che diventano veri e propri testimonial del progresso zootecnico emiliano romagnolo.
Restiamo a Parma. Nel 1896 è il toro Fritz, esemplare di 989 chili (1.59 di altezza), di proprietà di Giovanni Pellegri a corredare un articolo relativo al miglioramento della varietà bovina locale parmigiana. In questa occasione si ricorda l’attività del Comizio agrario parmense che, anche grazie alla Cassa di Risparmio, alla Provincia e al Ministero, nel 1890 aveva istituito stazioni di monta con tori indigeni.
Sempre sulla rivista “Italia Agricola” del 1896 si parla di bovini romagnoli. L’articolo, a firma di Adriano Aducco, direttore della cattedra Ambulante di Ferrara, è corredato da una splendida tavola derivata da una foto scattata dallo stesso Aducco nell’occasione dell’acquisto di un gruppo di tori fatto per migliorare le razze del ferrarese. Aducco, classe 1886, arrivato da Napoli, è da sempre un grande estimatore dei bovini di Romagna, di quella “razza che ha la sua vera sede nelle campagne dei circondari di Forlì, Russi, Cesena e parti di Rimini (Savignano, Santarcangelo, Gatteo)”. Questo bovini ebbero l’onore della cronaca in occasione della esposizione di Forlì del 1882 e di Torino del 1884. La rassegne di Forlì e Torino furono, a detta dell’Aducco, vere e proprie rivelazioni: “si può dire che tutti i giornali agrari ne hanno parlato: è una varietà del grande tipo podolico, ottenuta con cure ininterrotte di anni e anni, in virtù della grande passione che in tutta quella località si è sempre avuta, dal semplice vaccarolo al proprietario, per il bestiame bovino”. Oltre ad annotazioni più prettamente scientifiche, Aducco non manca di restituire anche lo spirito romagnolo: “Il romagnolo è ardito ed indomito, ama i cavalli che lo trasportano in corsa sfrenata su quei biroccini caratteristici ad alta ruota e a sedile basso; ma ama anche i suoi campi e la forza che li lavora. Non solo; il romagnolo agricoltore ha compreso da tempo che acquistando del bestiame e poi rivendendolo con guadagno, utilizza il lavoro e il concime e guadagna capitale, anziché perdere, ottenendo quindi tanto il lavoro che il concime al minimo costo: il romagnolo nasce dunque mercante di bestiame, come si nasce industriali, o colonizzatori o artisti”.
In questa carrellata non può mancare Reggio Emilia. E l’articolo non può che essere di Antonio Zanelli, che sulle colonne della “Italia Agricola”, nel 1892 scrive un esteso articolo dedicato alla Origine e parentela della varietà bovina reggiana. Si tratta di una razza che “occupa un vasto territorio del reggiano, del parmigiano e del piacentino, dalle radici dei primi colli fino alla sponda del Po e se vuolsi si estende al di là di questo fiume nel basso territorio cremonese. Lo studio degli animali nostri domestici ci conduce a constatare un fatto di primo ordine per la sua importanza zootecnica ed è che gli animali attuali, per i loro caratteri e soprattutto per le loro qualità zootecniche sono veramente il prodotto dell’arte degli allevatori sussidiata dall’influenza dell’ambiente climatico ed agricolo”.
Terminiamo questa galleria con Piacenza, con un omaggio all’intensa e riconosciuta attività dei fratelli Fioruzzi, Enrico ed Emilio, di cui abbiamo parlato in contributi precedenti. Qui ci vengono presentati Stellio e una vacca Schwyz apparsi sul “Giornale di Agricoltura” del 1888.
Stellio è un toro Durham, proveniente dall’allevamento di Enrico Fioruzzi, vincitore di numerose medaglie d’oro.
Il finale è dedicato a Rosa, una vacca di razza fiamminga importata da Emilio Fioruzzi e a Mauro, un toro di razza pugliese romagnola, già di proprietà di Eugenio Petrobelli di Lendinara, in provincia di Rovigo, acquistato nell'aprile 1893 da Leopoldo Tosi per l'azienda Torlonia di San Mauro.
di Daniela Morsia - Referente Biblioteca comunale Passerini-Landi di Piacenza
Fonti: Giornale di agricoltura della Domenica, L'Italia Agricola (o Italia Agricola)
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