L'evoluzione della viticoltura emiliana tra Otto e Novecento
Ai primi di settembre del 1888 l’ingegner Camillo Mancini è ospite di Cesare Guerrieri a Dozza. Da tempo Mancini desidera visitare i vigneti di quella zona, di cui si dice un gran bene. La curiosità è tanta. Appartenente ad una nobile famiglia di Ceccano, in provincia di Frosinone, è un grande esperto di innovazioni agrarie. Attento comunicatore, collabora al "Giornale di agricoltura del Regno d’Italia", la rivista che si stampa a Bologna e che di lì a qualche anno, grazie all’iniziativa di Giovanni Raineri, si fonderà con l’"Italia Agricola". Mancini ha in mente di redarre un reportage dedicato alla viticoltura emiliana e vuole partire proprio da lì, da Dozza.
Quando arriva sul posto la sorpresa va oltre l’attesa: "francamente ne restai meravigliato. Io, che un po’ per abitudine, un po’ quasi per mestiere, sono oramai uno degli agricoltori più errabondi d’Italia […] io dunque che di vigneti grossi e piccoli belli e brutti posso dir di averne visti a centinaia, io di fronte ai vigneti splendidi, incantevoli, ammirabili di Cesare Guerrieri restai incantato". Inizia così il resoconto di questo tour, dal titolo I vigneti-modello, che verrà pubblicato sulla rivista di Bologna in cinque puntate tra il 1890 e il 1891.
Siamo dunque nel settembre del 1888. Guerrieri accoglie l’ospite ed insieme percorrono lentamente la strada ruotabile che sale fino alla cima del colle. I vigneti - annota Mancini - sono tutti impiantati in collina, con terreno argillo-calcare, di colore bianco rossiccio, perfettamente adatto alla coltura della vite. Hanno esposizioni diverse perché le pendenze variano, anche se la maggior parte degli appezzamenti sono rivolti a sud, sud-est. Estese su una superficie di circa 40 ettari, le vigne sono ripartite in quadri seguendo l’ordine dei vitigni. Fra un quadro e l’altro corre un viottolo. Qui – osserva il Mancini - le vigne sono basse, mentre nell’area da Bologna ad Imola la vite predominante è quella “alta sugli stucchi”. Nel percorso si incontrano anche le case di guardia dei capi vignaioli. Poi è il momento del riposo, all’interno della casa padronale, dove l’ospite ha modo di ammirare anche una pregevole biblioteca agraria. E tra un buon bicchiere di vino e qualche chiacchiera, emerge lo straordinario lavoro di questo avveduto possidente emiliano, che, in venti anni di lavoro, ha saputo scegliere attentamente i vitigni più adatti all’area. Forte di questa esperienza, Guerrieri si sente di raccomandare "il Sangioveto, fra gli stranieri a frutto rosso il Cabernet franc, il Grenache, il Sirah ed il Malbech, fra quelli a frutto bianco il Sauvignon e il Semillon". Poi si parlerà di concimazione, di palatura ma anche di calcoli delle spese di impianto. Il dettagliato resoconto di questa visita costituisce un importante documento per capire l’evoluzione della viticoltura regionale tra Otto e Novecento, un aspetto questo sul quale punta l’attenzione il "Giornale di agricoltura del Regno d’Italia". Nel marzo 1889 porta la sua esperienza di viticoltore anche Gaetano Bignardi con una interessante corrispondenza – ricca di dati presi dai libri contabili – che arriva sempre da Dozza.
La “scuola viticola” di Giuseppe Scarabelli ad Imola
Nell’ottobre 1905 muore Giuseppe Scarabelli. Imolese doc, Scarabelli è stato un famoso geologo e paletnologo, nonché senatore del Regno. Ma è stato anche un avveduto agricoltore. Così il "Giornale di agricoltura della domenica" gli dedica un articolo, uscito il 17 dicembre 1905, a firma Domizio Cavazza.
Scarabelli, tra studio scientifico e una seduta al Senato, si era infatti dedicato anche alla gestione di alcune possessioni di famiglia, tra cui quella di Mordano, trasformata, dopo una lunga bonifica, in un podere all’avanguardia. Il coraggio non gli mancava. Ai primi del Novecento, a 82 anni, aveva deciso infatti di avviare la sperimentazione della coltivazione della patata da fecola. Il progetto era quello di avviare ad Imola una fecoleria.
Ma il nome di Scarabelli agricoltore si lega soprattutto al settore vitivinicolo. Sulla collina di Montericco – più precisamente a Monticini - aveva iniziato ad impiantare, a partire dal 1867, un grande vigneto.
All’inizio c’erano stati grandi lavori di sistemazione di scoli e sentieri. Non erano mancati confronti con altri possidenti agrari, come i marchesi Luigi Tanari e Ferdinando Bevilacqua, che credevano fortemente nella possibilità di un grande sviluppo della viticoltura emiliana. Scarabelli aveva iniziato con un impianto di uve da tavola Chasselas, messo in un appezzamento intercalato con peri e meli. Le vigne si erano poi arricchite via via con impianti di Sauvignon e Semillon. Tra le uve bianche comparvero l’Albana e la Malvasia di Broglio, tra le uve rosse la Barbera e il Sangiovese. Una chicca era rappresentata da un vigneto di Pinot. Nel giro di poco tempo quello di Scarabelli era diventato un vigneto modello, meta di molte visite di istruzione. Il podere – annota Cavazza nell’articolo del 1905 - è anche «scuola di lavorazione accurata del terreno, ove non si vedeva un filo d’erba, di trattamenti anticrittogamici che vi furono applicati quando la maggior parte dei vignaioli non voleva saperne di cimatura, potatura ed altre operazioni nelle quali il bravo vignaiolo allievo di Scarabelli era a sua volta diventato maestro».
Gli scatti di Roberto Sevardi a Reggio Emilia
Passano quasi venti anni. Il 12 novembre 1922 il "Giornale di agricoltura della domenica" pubblica una pagina – dal titolo Con Bacco nell’Emilia – che focalizza l’attenzione sulla viticoltura nel Reggiano. Da tempo la rivista della Federconsorzi dedica ampi reportage allo sviluppo della vitivinicoltura in tutta la regione, corredando gli scritti con splendide foto, diverse delle quali scattate dagli stessi articolisti. In questa occasione ci si avvale invece degli scatti di un attivo fotografo reggiano Roberto Sevardi. Sono foto che portano in primo piano i prodotti e le tecniche, ma anche, e soprattutto, lo straordinario mondo dei lavoratori. Ecco allora che passando nelle carraie si possono ammirare le vecchie navazze ma anche le nuove ceste di faggio.
Due graziose bambine posano in un tunnel di tirelle cariche di uva fogarina, in un podere dei fratelli Carretti a Villa Masone, mentre una vendemmiatrice sorride, con un bimbo che ne reclama l’attenzione, al fotografo sulla costa di Montericco, attorniata di una qualità tutta speciale di Lambrusco detta selvatica.
Scorriamo le pagine del giornale. Poco più avanti, una foto di un podere di Santa Agata bolognese campeggia nella prima pagina del numero del 17 dicembre. Le novità avanzano in terra emiliana. I proprietari, i fratelli Bergonzoni, hanno introdotto un nuovo sistema di allevamento e potatura chiamato “filonata”.
Le foto diventano via via più numerose, a documentare l’eccezionale sviluppo del settore. Ma ricordiamo che, di particolare interesse per lo studio e la ricerca, sono anche le splendide tavole a colori che corredano gli articoli di "Italia agricola", tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Qui proponiamo due tavole di varietà di uve da tavola tipiche del Piacentino.
Alla vitivinicoltura la Federconsorzi dedicherà anche diverse monografie pubblicate nella Collana della Biblioteca dell’insegnamento agrario professionale.
di Daniela Morsia - Referente Biblioteca comunale Passerini-Landi di Piacenza
Fonti: Giornale di agricoltura della Domenica, L'Italia Agricola (o Italia Agricola)
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