Le spazzole di canna comune nel reggiano e nel piacentino
1907, Cadiroggio, Reggio Emilia. La redazione del “Giornale di agricoltura della domenica” ha affidato a Domizio Cavazza il compito di documentare quanto realizzato, in oltre mezzo secolo, dalla famiglia Severi nei possedimenti di Cadiroggio, una frazione di Castellarano, ai piedi dell’Appennino reggiano. Di questo caso-modello di conquista di terreni originariamente impervi si sta parlando molto alla Società agraria di Bologna e la redazione della Federconsorzi vuole preparare un reportage. Il tecnico/giornalista incaricato è una firma di prim’ordine. Domizio Cavazza, noto enologo e dal 1893 direttore della Cattedra ambulante di Bologna, ben volentieri accetta l’incarico. Il caso modello di Cadiroggio, come detto, sta facendo scuola ed anche il Comizio agrario di Bologna decide di organizzare una gita di istruzione.
Ma per Cavazza non è la prima gita d’istruzione in quella terra: Cadiroggio - lo ricorda lui stesso all’inizio dell’articolo – era stata meta proprio della sua prima uscita da giovane studente, quasi quaranta anni prima. Nato a Concordia sulla Secchia, nel 1869 Cavazza era un giovane studente di agronomia e agrimensura all’Istituto tecnico di Modena. Nell’estate di quell’anno aveva assistito ad un corso tenuto ai maestri elementari dal professor Celi, corso che prevedeva anche una visita a Cadiroggio. In questa frazione del Reggiano Giuseppe Severi aveva da poco intrapreso la bonifica di un possedimento “tutto scosceso, formato di argille e tufi biancastri, profondamente intagliato e spogliato dalle acque, ridotto ad una ossatura costoluta e nuda, in parte franoso, che poi doveva divenire un modello di colmate di monte. I precetti dell’abate Lattri, le felici sistemazioni e colmate montane del Testaferrata in Toscana avevano servito da guida al sig. Severi nell’intrapresa. Ottenuti, con modestia di mezzi, i primi risultati si sentì incoraggiato a proseguire e l’opera paziente venne continuata dai figli. Chi mi avrebbe detto allora che, dopo 38 anni, mi sarei occupato della sistemazione di Cadiroggio?”
Dopo quasi quaranta anni Cavazza torna dunque in questa terra per scrivere un articolo "Le colmate e sistemazioni montante dei Fratelli Severi a Cadiroggio presso Castellarano (Reggio Emilia)" che viene pubblicato su due pagine nel numero del 13 ottobre 1907 del “Giornale di agricoltura della domenica”. Il reportage del Cavazza è molto dettagliato ed interessante, corredato da due splendide foto, davvero notevoli anche per l’ampia inquadratura, che documentano il nuovo paesaggio determinato dall’incessante lavoro dell’uomo.
Tante cose - nota Cavazza - sono cambiate dalla sua prima visita, in quel lontano 1869. L’opera intrapresa da Giuseppe Severi è stata continuata dai figli Alessandro e Severo, e l'idea “che guidò e guida i fratelli Severi nel loro diligente, continuo, razionale governo del suolo fu rendersi padroni dell’acqua, dalla quale derivano i gravissimi danni specialmente in questi terreni”. In questa area, segnata dalla presenza di calanchi a base di argille scagliose e di quattro rii (Rii delle Pietre, Riali della Chiesa, Riali dei monti di Cadiroggio e Fosso delle Salde o delle vigne) i Severi, con l’occhio “vigile del proprietario”, hanno infatti saputo imprimere un profondo cambiamento al paesaggio agrario, aumentando notevolmente la superficie di terreno coltivabile, ma anche impiantando case coloniche con relative strade di accesso.
Il Cavazza ricorda infine come la famiglia Severi abbia cercato anche di favorire la diffusione, fra i coloni di questi possedimenti, di piccole industrie domestiche. E con ottimi risultati, chiude il direttore della Cattedra ambulante di Bologna. Alla mostra delle piccole industrie, svoltasi a Scandiano nel maggio 1902 ed organizzata dalla società Pro Montibus, gli agricoltori di Cadiroggio avevano saputo farsi apprezzare grazie all’esposizione di arelle e spazzole ottenute dalla cannuccia comune, di fusi di legno costruiti con legno dell’acer campestre e di cestini di vimini.
L’attenzione nei confronti dello sviluppo delle aree collinari e di montagna è molto viva in quegli anni negli ambienti giornalistici della Federconsorzi. Sempre nel 1907 il “Giornale di agricoltura della domenica” fa uscire un bell’articolo dedicato alla lavorazione della radice da spazzola nel piacentino. Il contributo è firmato da Evaristo Jelmoni, assistente di Ferruccio Zago alla Cattedra ambulante di Piacenza, mentre le quattro foto messe a corredo sono di Vincenzo Salvetti. L’estrazione e lavorazione della radice da spazzola è parecchio diffusa in tutta la regione: oltreché nel Piacentino, l’autore ricorda anche il Modenese, il Ferrarese e tutta la Romagna. La pianta che viene estratta è l’Andropogon gryllus, fiorisce in giugno e luglio, e assume denominazioni diverse a seconda dell’area (ad esempio nel Piacentino “radisa”, nel Modenese “busmarola”). Nasce spontaneamente nei greti dei torrenti e su certe pendici collinari, nei cosiddetti gerbidi. Gli arnesi di lavorazione sono piuttosto semplici: il piccone e il falcetto per l’estrazione, il rollo per la lavorazione. Verso la fine di settembre inizia la campagna che continua fino a tutto il mese di aprile dell’anno successivo: “sono frotte di donne e uomini che nelle giornate di disoccupazione meno rigide e non piovose si recano nel greto dei torrenti e si distribuiscono lungo il greto stesso nei punti in cui maggiore è la produzione”. L’articolo mette a corredo due foto di un gruppo di giovani donne prima impegnate ad estrarre le radici, poi a pulirle. Le piante estratte, prima di essere lavorate, sono infatti recise sul posto al colletto.
Una volta terminate queste operazioni le radici sono pronte per essere lavorate nei laboratori domestici.
di Daniela Morsia - Referente Biblioteca comunale Passerini-Landi di Piacenza
Fonti: Giornale di agricoltura della Domenica, L'Italia Agricola (o Italia Agricola)
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